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SECONDA LETTERA AI CORINZI
(8)

 

L’ultima parte della lettera, formata dai cc. 10-13, assomiglia alla prima, anzi, in questi ultimi capitoli Paolo sembra anche più concitato e aggressivo. Egli si rivolge certo a tutta la comunità di Corinto, ma ha di mira in particolare “alcuni che ci giudicano…” (10,2), oppure: “Sappia costui…” (10,11). Evidentemente, dopo che Tito, con la sua abilità e prudenza, aveva riportato la comunità a riconoscere l’autorità di Paolo e la validità del suo insegnamento, non tutti erano rimasti convinti. Si trattava di quei cristiani venuti da fuori Corinto – e forse qualcuno della comunità – che cercavano pretesti per disprezzarlo e mostrarlo non all’altezza della sua missione di apostolo. Egli li chiama ironicamente “arciapostoli”, o “superapostoli” (11,5), perché si sentivano tanto superiori a lui da poterlo giudicare. Per quanto lo riguarda personalmente, Paolo ha già perdonato (cfr. 2,5-11), ma c’è di mezzo qualcosa di troppo grande e importante per limitarsi al perdono, come se si trattasse solo di un’offesa a livello personale: c’è di mezzo la missione alla quale Gesù stesso l’ha chiamato; c’è di mezzo il suo apostolato che implica la verità della fede in Gesù che egli annuncia, in pieno accordo con Pietro, Giacomo e Giovanni, chiamati “le colonne” della Chiesa (cfr. Gal 2,10); e c’è di mezzo la vita cristiana della comunità. E allora Paolo, come un padre che difende i suoi figli da pericoli mortali, non bada più a quella che diremmo “la sopportazione cristiana delle offese”, ma difende se stesso come apostolo, per difendere in realtà la comunità di Corinto e le altre che egli ha fondato e fatto crescere con tanto impegno, fatica e tribolazioni, e che sono formate in gran parte da cristiani provenienti dal paganesimo. Dato il brusco cambiamento di tono e di argomento tra il c. 9 e il c. 10, qualche studioso pensa che questa parte della 2Cor potrebbe essere la famosa “lettera delle lacrime” (2,4) che Paolo dice di avere scritto piangendo, perché non avrebbe mai voluto scrivere una lettera simile ai suoi figli, anche se era necessaria per salvarli da errori e illusioni. Si tratta solo di una ipotesi che lasciamo agli studiosi! Il c. 10 – che è bene leggere e rileggere prima della presentazione che qui ne facciamo – si può dividere in due parti (10,1-11 e 10,12-17), riassunte in due frasi emblematiche: 1) “Il potere che il Signore ci ha dato è per la vostra edificazione, non per la vostra rovina” (10,8); 2) “Chi si gloria si glori

nel Signore” (10,17).

1)10,1-11: “Il potere che il Signore ci ha dato è per la vostra edificazione, non per la vostra rovina”.

Paolo qui si riferisce al potere e all’autorità degli apostoli, primi annunciatori del vangelo, direttamente inviati di Gesù (cfr. Mt 28,20). Oltre al potere di annunciare il vangelo, di battezzare i credenti facendoli diventare figli di Dio, insegnando loro a vivere secondo gli esempi e la parola di Gesù, (cfr. per es., il discorso della montagna Mt 5-7), essi avevano anche il potere di allontanare, di escludere dalla comunità cristiana coloro che pretendevano di dare insegnamenti e introdurre comportamenti contrari a quelli di Gesù e degli apostoli stessi. Naturalmente Paolo cercava di portare i suoi fedeli a vivere come Gesù aveva insegnato e vissuto, avviando un discorso pieno di amorevolezza, con parole e raccomandazioni piene di umanità e carità. Ricordiamo come si esprimeva scrivendo ai Tessalonicesi: «Come una madre che cura i suoi figli…, avremmo voluto darvi anche la nostra stessa vita, non solo il vangelo, tanto ci eravate diventati cari… come fa un padre con i suoi figli vi abbiamo esortato…» (cfr. 1Ts 2,7-12). Così Paolo scriveva fin dalla sua prima lettera. E certamente così si esprimeva e si comportava verso tutte le sue comunità che amava come Cristo di cui erano membra vive, secondo il suo pensiero illuminato dallo Spirito (cfr. 1Cor 12,12). Per questo, anche qui egli inizia a parlare ai suoi avversari “esortando con la dolcezza e misericordia di Cristo” (10,1). Costoro accusavano Paolo di “camminare secondo la carne”.
Sappiamo che “camminare” nel linguaggio biblico ha spesso un senso figurato e significa “vivere, comportarsi”, mentre l’espressione “secondo la carne” in Paolo significa “con sentimenti e finalità del tutto umane”, quindi per vantaggi personali (stima, prestigio, interesse, orgoglio, invidia…); “secondo lo Spirito” invece si riferisce non al nostro spirito, o anima, ma allo Spirito Santo che Dio comunica ai seguaci di Gesù perché abbiano la luce e la forza di vivere come figli di Dio imitando il Figlio di Dio, il primogenito tra molti fratelli (Rm 8,29). Sembra dunque che quegli “alcuni”, cui Paolo si riferisce, cerchino quasi di ridicolizzarlo, mostrandolo come una banderuola che si muove secondo che tira il vento, che si fa umile o prepotente (vedi i vv. 1 e 10), secondo che gli conviene, per mantenere o non perdere il suo prestigio presso i Corinzi; Paolo sarebbe insomma un pover’uomo, senza dignità, che non si comporta in modo serio, stabile e coerente. Paolo intende certo parlare chiaro, soprattutto per lettera, utilizzando uno strumento di comunicazione che rimane, un documento a cui ci si può richiamare.
E di questo Paolo si preoccupava, soprattutto quando toccava punti che riguardavano la fede o la condotta cristiana dei fedeli. Quando invece è presente di persona alle sue comunità il suo atteggiamento è affabile, cerca di non urtare, di non provocare suscettibilità; e poi, di presenza, è facile spiegarsi, chiarire, in un tono di dialogo familiare che favorisce l’unità, l’affiatamento e la fraternità tra i fedeli. Ma tutto può essere stravolto e interpretato male per raggiungere lo scopo… In realtà, erano gli avversari di Paolo che “camminavano secondo la carne”! Paolo riconosce che i suoi scritti sono a volte severi e impegnativi per i cristiani e che egli, secondo la missione affidatagli, deve anche intervenire seriamente (come aveva fatto per esempio nella 1Cor ai cc. 5-6); ma afferma che può mostrarsi severo e forte anche di presenza se sarà necessario. Egli prega di non essere costretto a usare questa severità, ma sarà capace di usarla con quegli “alcuni” (10,2), quanto più la comunità sarà unita nell’obbedienza e fiducia al suo fondatore e padre (v. 6). Paolo ha coscienza, come nessun altro apostolo, almeno per quanto ci consta, della forza di cui Cristo lo ha rivestito per la sua missione e su questa idea costruisce un modo di parlare che potremmo chiamare “militaresco”: egli sente la sua vita come una battaglia contro le forze del male che cercano di impedire l’estendersi del regno di Dio e di Cristo, ed è certo che la potenza di Cristo è superiore ad esse. Le armi di battaglia degli apostoli non sono “secondo la carne”, cioè secondo ragionamenti e comportamenti interessati, ma hanno la potenza di Dio che “abbatte le fortezze”, cioè gli argomenti umani che la ragione o la società oppongono all’annuncio del vangelo, alla vera conoscenza di Dio; e hanno la potenza che “fa prigioniera l’intelligenza umana” nel senso che la porta alla obbedienza della fede (vv. 4-5). Così è avvenuto anche a Corinto, dove Paolo ha portato alla fede in Cristo persone di origine pagana che hanno avuto, certo, difficoltà ad accogliere Cristo come Dio, nonostante lo scandalo della croce (cfr. 1Cor 1,18)! Ma la parola di Paolo, con la forza di Dio, ha toccato i loro cuori e li ha portati alla sottomissione, cioè alla fede in Cristo. Questa potenza è data a Paolo e agli apostoli “per l’edificazione”, per la costruzione della vita dell’uomo che nella fede di Cristo diventa non solo migliore, perché già qui crea fraternità e gioia, ma soprattutto la riempie di speranza in una eternità felice. Paolo non vuole certo usare della forza che Dio gli ha donato per far soffrire, per disgregare, rovinare la comunità, ma per farne una costruzione bella, splendida, compatta, un tempio di Dio. Cerchino perciò di capirlo i Corinzi e non diano retta a coloro che di fatto rovinano questa costruzione. Quando tornerà a Corinto (come promette più avanti in 12,14 e 13,1) Paolo userà di questa forza, se sarà necessario, per liberare la comunità dai falsi fratelli che seminano disunione, proponendo idee errate e comportamenti non conformi alla fede in Cristo.

2) 10,12-17: “Chi si gloria si glori nel Signore”.

E Paolo prende questa frase dal profeta Geremia (Ger 9,22-23); ma nella sua penna essa non è solo un’esortazione spirituale a riferire al Signore, e non a noi stessi, il bene che egli ci dà la grazia di compiere, ma è anche un richiamo ai suoi avversari che vantavano i loro meriti per farsi preferire a Paolo anche nelle comunità da lui fondate. Oltre alle accuse di prepotenza nelle sue lettere e di falsa umiltà quando era presente alle sue comunità, gli avversari di Paolo ora lo accusano anche di orgoglio e vanteria per il suo lavoro apostolico esteso a tutti gli uomini e i popoli. Si leggono ripetutamente in questi versetti le parole “gloriarsi, vantarsi, vanto…”, termini che ricorrono con frequenza nei Salmi e nei libri sapienziali della Bibbia e che indicano persone orgogliose, piene di sé che non si curano di Dio e della sua legge. Insieme a queste parole (“vantarsi, vanto”), ricorrono con frequenza anche le parole “misura, norma”, particolarmente legate, nella mentalità greca, alla bellezza nelle opere d’arte (scultura, architettura, ecc…), ma che venivano usate anche per l’uomo che doveva condurre la sua vita secondo norme e misure, cioè con saggezza per non essere un burattino in balìa di passioni o di mode futili e passeggere. Paolo, nato e cresciuto in una città di cultura greca, quale era Tarso nella Cilicia (regione a sud-est nell’attuale Turchia), conosceva questo linguaggio, ma qui lo usa a modo suo! La misura e la norma di comportamento per lui è la parola di Cristo che gli è apparso risorto e glorioso e gli ha affidato la missione di far conoscere ai popoli pagani il vangelo della salvezza ormai estesa a tutti gli uomini. Nel suo caso specifico poi, lo Spirito di Dio lo ha indirizzato verso ovest, verso la Grecia (cfr. Atti 16,6-10) e, dopo l’insuccesso di Atene, verso Corinto dove Gesù stesso lo ha incoraggiato a perseverare nella missione, perché in questa città molti avrebbero accolto la sua parola (Atti 18,9- 10).
E Paolo dice ai Corinzi che fino a loro era arrivato, secondo la norma e la misura, cioè le indicazioni, che aveva stabilito il Signore per il suo apostolato. E il Signore lo attirava o indirizzava sempre verso popolazioni pagane e lì egli si impegnava, con fatica, sofferenza e anche con persecuzioni, a seminarvi il vangelo. Ma, nonostante tutto il suo impegno e lavoro, Paolo riconosceva che la riuscita della missione era dovuta alla grazia di Dio: «Per grazia di Dio sono quello che sono… ho faticato più di tutti loro; non io, ma la grazia di Dio con me» (1Cor 15,10). Perciò non se ne vantava come di un merito proprio. Ripensando alla sua vocazione, ora che era giunto a Corinto, il suo sguardo si protendeva ancora verso occidente. Nel porto di Corinto arrivavano e partivano tante navi per i porti d’Italia; Paolo desiderava arrivare a Roma per passare poi anche in Spagna… (cfr. Rm 15,22-24). Ma prima di allontanarsi dalla Grecia, vuole essere sicuro che i suoi Corinzi siano cresciuti, diventati adulti nella fede (10,15-16). Dei suoi avversari Paolo dice che la stabilivano essi stessi la misura e la norma dei loro giudizi e della loro condotta (10,12). Essi andavano a predicare presso comunità già fondate da altri per valutare e giudicare, ma lo facevano secondo i loro pregiudizi, nella convinzione che la salvezza fosse riservata al popolo ebreo, e per questo volevano imporre l’osservanza della legge di Mosè a tutti i pagani che si convertivano a Cristo, perché prima avrebbero dovuto inserirsi nel popolo eletto per essere veri cristiani… (Era questa l’idea dei cosiddetti “giudaizzanti”). La visione di Cristo risorto e la missione da lui affidatagli avevano aperto gli occhi a Paolo: solo la fede in Gesù e il suo vangelo sono necessari per il cristiano. E Paolo stesso aveva spinto la chiesa apostolica a prenderne coscienza (cfr. Atti 15). Paolo, dunque, vuole seguire sempre le indicazioni che il Signore, direttamente o attraverso le circostanze, gli fa giungere per ciò che riguarda la sua missione. Se il Signore, blocca certi progetti di Paolo e lo orienta in altra direzione, egli accoglie ed esegue quanto il Signore gli propone, perché non ha deciso lui di assumere la missione di evangelizzare, ma l’ha ricevuta da Cristo. Se, da una parte, sente nella sua coscienza il dovere a cui non può sottrarsi: «Guai a me se non annuncio il vangelo» (1Cor 9,16), dall’altra è altrettanto obbediente a svolgere questa missione secondo le indicazioni di Cristo che rimane sempre “misura e norma” del suo apostolato e di tutta la sua vita..

PER LA RIFLESSIONE PERSONALE:

1) Comprendo e cerco di vivere la parola di Paolo quando dice che il cristiano – e quindi ancor più la persona consacrata – deve “camminare non secondo la carne, ma secondo lo Spirito”? So pregare anche lo Spirito oltre il Padre e il Figlio?

2) Credo che il Signore mi è presente anche quando non posso realizzare i miei progetti e proposte di bene, sia per impossibilità oggettive sia anche per incomprensioni, antipatie… nei miei confronti?

3) Rifletto qualche volta sulla mia vita per riconoscere la bontà di Dio che mi ha condotto ad essere completamente sua per la missione che mi offre nelle circostanze concrete in cui vivo, pur non risparmiandomi sacrifici e sofferenze?

D. Antonio Girlanda ssp

 

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